Salario minimo nazionale: una riforma epocale che serve solo alla politica

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September 4, 2019

“È altrettanto chiaro che nessuna attività economica che sopravvive pagando salari sotto al livello di sussistenza abbia alcun diritto di continuare ad esistere in questo paese. […] E con livello di sussistenza non mi riferisco alla “mera” sussistenza – intendo un salario adeguato ad una vita dignitosa”. Era il 1933 e così Franklin Delano Roosevelt gettava le basi per l’introduzione del salario minimo nazionale negli Stati Uniti di lì a cinque anni. Da allora, di anni ne sono passati quasi novanta e il dibattito sul tema non si è arrestato. Questo luglio, Luigi Di Maio dichiarava che presto il salario minimo diventerà legge anche in Italia: “altrimenti non è lavoro, è schiavitù!”, tuonava in un video promozionale della proposta. A guardar bene, tra Roosevelt e Di Maio sono stati tanti ad esprimersi negli anni: opportunità e conseguenze del fissare una minima paga in forza di legge hanno animato il dibattito non solo tra i leader politici, ma anche tra gli economisti accademici.

L’idea di un minimo sotto cui le imprese non possano pagare i lavoratori viene da lontano. La prima traccia risale al 1894 in Nuova Zelanda – poi in Australia pochi anni dopo, fino al Regno Unito nel 1909. In molti di questi primi casi, si trattava più di uno strumento temporaneo usato per incentivare lavoratori e datori di lavoro a trovare degli accordi autonomi, o per proteggere particolari categorie – come donne e bambini negli Stati Uniti prima dell’intervento di Roosevelt. È il dopoguerra il vero spartiacque: dopo India e Pakistan, arriveranno grandi paesi dell’Europa continentale – presumibilmente sull’onda del fermento politico della fine degli anni ’60. Nel 1970, la Francia ha un salario minimo e gli Stati Uniti hanno espanso la platea dei beneficiari fino all’80 percento della forza lavoro nazionale. Il resto dell’Europa e buona parte del mondo seguiranno dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi, in cui il novanta percento dei paesi aderenti all’ILO possiede una forma di salario minimo.

E l’Italia? Formalmente il nostro paese figura tra questi (è una politica considerata in vigore in tutti i paesi europei), ma rappresenta comunque un caso peculiare: invece che un salario minimo universale, esistono una serie di “salari minimi per settore”. Sono i cosiddetti “minimi tabellari” dei contratti collettivi nazionali del lavoro (CCNL), discussi e definiti settore per settore dalle parti sociali. Ci sono due ragioni principali che giustificano un sistema frammentato di questo tipo. La prima è che contrattare una paga minima a livello di settore industriale garantisce maggiore flessibilità e la possibilità di far fronte alle diverse esigenze: l’industria metalmeccanica è diversa da quella agricola o quella finanziaria – e i minimi tabellari consentono una migliore adattabilità. La seconda riguarda il potere contrattuale delle stesse parti sociali, che godono di un peso maggiore sedendosi a più tavoli rispetto al caso in cui il salario da definire su base nazionale sia uno solo.

La politica discute da tempo se superare questo schema attraverso l’introduzione di un salario minimo universale – che si applica cioè a tutte le categorie di lavoratori e ad ogni settore, aumentando la protezione offerta dall’intervento. La macchinosità del dibattito, costantemente dentro e fuori dall’agenda politica, una volta tanto sembra giustificata: le implicazioni di una misura generalmente salutata come di buonsenso sono tutt’altro che ovvie. Chi lo osteggia sostiene che alzare la paga in forza di legge riduce le prospettive occupazionali dei lavoratori meno pagati, perché aumenta i costi per il datore di lavoro che vorrà assumere meno. Chi lo difende è convinto che ne possano beneficiare tutti i lavoratori – e non solo quelli direttamente coinvolti dalla misura – per effetto di sinergie tra la forza lavoro, o di dinamiche di redistribuzione all’interno dell’azienda.

Da che parte sta la ragione? Per gran parte del ‘900 la teoria economica ha sostenuto che il salario minimo porta con sé il rischio di ridurre l’occupazione. Tuttavia, gli ultimi trent’anni di ricerca empirica hanno mostrato – in contesti anche molto eterogenei – che gli effetti sull’occupazione sono alla prova dei dati spesso nulli, o comunque incerti.

Per mancanza di dati e capacità di elaborazione statistica, i primi studi sul tema sono esclusivamente teorici. La visione generalmente accettata fino ai primi anni ’90 è quella del cosiddetto “modello neoclassico”, in cui un innalzamento del salario minimo rende più costoso il lavoro per le aziende e le induce a ridurne la domanda – abbassando l’occupazione. I primi lavori empirici, che provano a validare o confutare una visione fino ad allora esclusivamente teorica, cambiano la prospettiva sul tema; e portano la firma di David Card di Berkeley e Alan Krueger di Princeton (poi consigliere economico di Obama e recentemente scomparso). Una loro celebre ricerca del 1994 studia l’aumento del salario minimo in New Jersey nel 1992, seguendo le dinamiche di occupazione dei lavoratori di 410 fast-food tra il New Jersey stesso e la Pennsylvania (usata come “gruppo di controllo”), prima e dopo l’intervento. Il risultato è inaspettato, e non conferma la previsione del modello neoclassico, fino ad allora data quasi per scontata: l’innalzamento del salario minimo ha avuto un impatto statisticamente nullo sull’occupazione. Seguirà una lunga serie di lavori a confermare questa evidenza in diversi contesti – e con dati via via sempre più accurati. La teoria dominante per gran parte del ‘900 era dunque sbagliata? La risposta è no, perché le sue intuizioni restano valide – ma ha bisogno di un’estensione.

Esistono fattori che se considerati spiegano un effetto occupazionale contrario a quello solitamente previsto – con un impatto complessivo sull’occupazione incerto. Vogliamo focalizzarci su una teoria in particolare, che ci sembra efficace nel fornire un’interpretazione solida e utile al caso italiano. La novità è questa: assumiamo che una singola impresa possa influenzare direttamente i salari, cioè decidere in autonomia se pagare più o meno questo o quel lavoratore. Al contrario, la teoria neoclassica considerava le imprese troppo piccole, frammentate o contrattualmente deboli e ipotizzava che in qualche modo “subissero” un salario fissato dal mercato. Questo potere contrattuale può avere due spiegazioni principali: la dimensione della forza lavoro dell’azienda, o la concentrazione della domanda di lavoro nel settore in cui opera – dove maggiore concentrazione, ovvero poche imprese a trainare la domanda, implica maggior potere contrattuale.

Per le aziende che ne hanno la forza si pone una scelta: alzare i salari aumenta la possibilità di attrarre lavoratori, ma aumenta allo stesso tempo i costi – visto che le costringe a pagare di più anche chi è già impiegato con una paga più bassa. In virtù del loro potere contrattuale, tutte le aziende finiscono a pagare i lavoratori meno di quanto farebbero in un regime di maggiore debolezza: in un certo senso, sfruttano la loro forza per ridurre il costo del bene che acquistano (cioè il lavoro), ottenendo quella che in gergo economico si chiama “rendita”. Cosa succede, in questo contesto, con un salario minimo? Le aziende potranno assorbire il costo di stipendi più alti erodendo la rendita garantita dal loro potere contrattuale, senza necessariamente ridurre l’occupazione. Per questo motivo gli effetti negativi sull’occupazione sono mitigati in un mercato del lavoro in cui le imprese hanno maggior potere contrattuale.

Resta poi vero che l’introduzione di un salario minimo troppo alto, o un suo aumento eccessivo, non può che ridurre l’occupazione una volta esaurita la rendita da poter erodere – coerentemente a quanto spiegato dal modello neoclassico. Diversi studi empirici hanno confermato che questa lettura è valida finché sono valide le sue premesse. Senza una concentrazione della domanda di lavoro in poche imprese di grandi dimensioni, diventa molto più difficile assorbire il “colpo” di un salario minimo.

Ma allora l’Italia che dovrebbe fare? Rimanere fedele alla sua tradizione di contrattazione per settore, continuando ad utilizzare un sistema che garantisce flessibilità e adattabilità alle esigenze dei diversi mercati; o adottare un salario minimo nazionale, che assicurerebbe all’intervento una maggiore universalità?

La risposta, si è detto, dipende da quanto la domanda di lavoro è concentrata nel mercato italiano e dalla dimensione delle sue aziende. Non è difficile: le nostre imprese sono mediamente più piccole che negli altri grandi paesi europei (qui il 95 percento delle aziende ha meno di nove dipendenti); e questo si traduce in una domanda di lavoro estremamente frammentata. La singola impresa ha dunque, in media, un basso potere contrattuale nella definizione dei salari: la rendita da erodere, per le aziende italiane, è piccola; e, come abbiamo visto, questo amplifica gli effetti negativi occupazionali negativi di un salario minimo.

L’introduzione di una misura di questo tipo rischia seriamente di ridurre l’occupazione nel nostro paese, già inferiore alla media europea. Oltretutto, una misura universale riduce la flessibilità nel definire gli stipendi minimi oggi garantita dal CCNL, oltre a diminuire numero e peso dei sindacati al tavolo. La contrattazione collettiva resta comunque un oggetto complesso, con luci e ombre, ma il principio dei minimi tabellari settoriali garantisce chiari vantaggi.

Un salario minimo nazionale potrebbe essere comunque utile per rispondere alle “deviazioni” dal sistema dei CCNL che nel gergo sono definite “contratti pirata”: non firmati da tutte le sigle più rappresentative, sono adottati dalle imprese che vogliono ridurre il monte salariale, di solito in periodi di crisi. Una paga minima nazionale impedirebbe che in questi casi le imprese costringano i lavoratori ad accettare condizioni inadeguate. Ma esistono soluzioni intermedie e alternative. Per esempio, un salario minimo nazionale che si applichi soltanto fuori dal CCNL. In questa maniera si contrasta l’utilizzo dei contratti pirata senza però rinunciare alla contrattazione per settore – e ai suoi benefici – e allo stesso tempo si estende un salario adeguato anche alle nuove occupazioni create dal progresso tecnologico, in attesa che la contrattazione collettiva si aggiorni per definirne le condizioni contrattuali.

Per quanto riguarda i sogni irrealizzabili, pensiamo a quanto servirebbero delle considerazioni riguardo all’eterogeneità del nostro paese. L’Italia viaggia a diverse velocità, e i livelli dei prezzi differiscono – come ogni altro indicatore economico – non solo tra nord e sud, ma anche tra zone urbane e rurali. Le difficoltà politiche non sono difficili da immaginare, ma la definizione del salario minimo non dovrebbe prescindere da considerazioni sul potere di acquisto, anche pensando che la premessa dell’intervento è la necessità di garantire salari adeguati ad una vita dignitosa. Lo stesso salario minimo in Lombardia permette di acquistare il 23 percento in meno di beni che in Basilicata. Ignorare questo fatto significherebbe accentuare le divergenze – già fortissime – di salario reale in relazione alla produttività.

Le condizioni del paese, della sua politica e la ricerca economica possono permetterci di tracciare un quadro. L’Italia non ha imprese forti, con un solido potere contrattuale. Non ha lo spazio per una discussione politica seria sulla sua eterogeneità territoriale. Ha però un sistema di contrattazione collettiva che, per quanto migliorabile, è adeguato alle sfide future e alla loro richiesta di un salario minimo flessibile. Evitare di sacrificare questa struttura sull’altare di uno slogan politico sarebbe un servizio utile al paese.

Speriamo di non dover assistere a una “riforma epocale” in uno dei pochi ambiti in cui, tutto sommato, non servirebbe.