Il rischio di sprecare un’occasione. Negli Stati Uniti il problema è la segregazione, non solo la polizia

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June 23, 2020

Le manifestazioni di piazza nate negli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un agente di polizia hanno chiesto a gran voce una riforma delle forze dell’ordine. Ma la polizia  è solo una parte, forse minore, di un problema molto più ampio, e potrebbe essere quasi uno spreco utilizzare l’energia del più grande movimento di piazza degli ultimi trent’anni limitandosi a riformare la polizia.

È difficile studiare i pregiudizi razziali della polizia poiché non esistono dati che coprono l’intero paese in dettaglio. A differenza dell’Italia, infatti, negli Stati Uniti non esiste un unico corpo di polizia, ma tanti e frammentati corpi locali non soggetti al diretto controllo federale.

Il Washington Post però da qualche anno raccoglie informazioni sulle vittime della polizia in conflitti con armi da fuoco. Da questi dati emerge che 31 afroamericani ogni milione vengono uccisi dalla polizia in sparatorie, contro 13 bianchi.

Va però considerato il tasso di criminalità nei due gruppi: è quasi quattro volte più probabile che un afroamericano sia in carcere per aver commesso un crimine violento rispetto a un bianco.

Tuttavia, anche il tasso d’incarcerazione può essere influenzato da pregiudizi razziali, quindi è difficile capire qualcosa da queste statistiche generali.

Bisogna scavare di più: va inquadrato il contesto di ogni sparatoria per valutare errori di gestione da parte della polizia o la presenza di pregiudizi razziali. Servono dati dettagliati, che fino a poco tempo fa non erano mai stati utilizzati.

Uno studio del 2019 di Roland Fryer – il più giovane afroamericano a ottenere una cattedra da professore a Harvard – ha raccolto per la prima volta dati sugli interventi della polizia dai verbali messi a disposizione da alcuni Stati e contee.

Il risultato dell’analisi è sorprendente: tenute in considerazione le differenze di contesto della sparatoria, il tipo di crimine, il livello di rischio per i poliziotti, gli afroamericani non hanno una più alta probabilità di essere uccisi dalla polizia rispetto ai bianchi.

La scoperta ha sorpreso Fryer per primo, che racconta di aver assunto otto nuovi assistenti di ricerca per ricostruire i dati e confermare le conclusioni dell’analisi.

Il risultato è in linea con i dati del Washington Post che certificano come nel 2015  145 bianchi e 123 afroamericani siano stati uccisi in sparatorie in cui la vittima era disarmata, situazioni in cui si presume che la polizia potesse evitare di aprire il fuoco.

Lo studio di Fryer è stato pubblicato sul Journal of Political Economy, una delle più prestigiose riviste di economia al mondo, dopo aver avviato un dibattito sulla stampa statunitense.

Le discussioni sul risultato sorprendente di Fryer hanno però offuscato il punto più importante dello studio. Se da una parte è vero che l’uso “letale” della forza non sembra concentrarsi sugli afroamericani rispetto ai bianchi, dall’altra tutti gli altri interventi della polizia – anche quelli violenti – sono estremamente sbilanciati ai danni degli afroamericani.

Per esempio, è molto più probabile che un afroamericano sia ammanettato, perquisito, fermato per strada o scaraventato a terra dalla polizia. Secondo Fryer, quando il costo reputazionale di una sparatoria con vittime è alto, i poliziotti che discriminano su base razziale evitano di mostrare il proprio pregiudizio in situazioni estreme, come appunto una sparatoria, ma si limitano a farlo nel corso di tutti gli altri interventi.

Anche la discriminazione su interventi meno violenti può avere pesanti conseguenze sulla vita degli afroamericani, se li porta a pensare che l’intera società soffra dello stesso problema. In quel caso, spiega Fryer, potrebbero tra le altre cose decidere di non investire nell’educazione dei figli, convinti che in un mondo di discriminazione l’istruzione non sia fondamentale per un afroamericano.

Così come aiutano a circoscrivere il problema della discriminazione ad alcuni aspetti dell’attività dei poliziotti, i dati possono guidare una discussione sul contenuto e la direzione di un’eventuale riforma.

Innanzitutto, è chiaro che negli Stati Uniti c’è un problema di violenza del corpo di polizia: il Washington Post conta più di mille vittime della polizia ogni anno. D’altro canto però la violenza della polizia fa da contraltare a un alto tasso di criminalità nella popolazione: ogni anno ci sono tra i 15 e i 17 mila omicidi e circa mezzo milione di persone è in carcere per reati violenti tra cui omicidi, stupri e rapine.

Per dare l’idea, mentre nel 2018 in Italia sono stati registrati 345 omicidi, la sola città di Chicago conta 490 omicidi nel 2019 con un record di 756 nel 2016.

Il corpo di polizia, come tutte le organizzazioni, si basa su un complesso sistema d’incentivi. Anche la necessaria indagine nei confronti di un poliziotto a seguito di un omicidio deve essere gestita con cautela per evitare ripercussioni negative. È Fryer stesso a raccontarcelo in uno studio appena uscito, ma non ancora pubblicato.  

Quando l’indagine sulla polizia locale è preceduta da un evento che diventa mediaticamente “virale”, come nel caso dell’omicidio di Floyd, il numero di omicidi e crimini nelle settimane successive s’impenna.

I dati provano che le città in cui le indagini hanno ricevuto maggiore copertura sulla stampa hanno registrato in totale 900 omicidi e 34.000 crimini in più rispetto a città simili. Solitamente le vittime di questi crimini sono afroamericani o membri di altre minoranze. A conferma della tesi di Fryer, a Los Angeles la settimana dopo l’inizio delle recenti proteste il tasso di omicidi è salito del 250% e quello di persone vittime di arma da fuoco è salito del 56%.

La tesi di Fryer è che rendere mediatica un’indagine su alcuni poliziotti possa scoraggiare i colleghi dal continuare il loro lavoro con la stessa intensità di prima, e rischi di aumentare il numero di omicidi o di altri crimini. Questo va considerato nello svolgimento delle indagini che seguiranno gli eventi di queste settimane, anche se è difficile immaginare una soluzione al problema.

Ci sono altri esempi a favore dell’idea che la polizia risponda a incentivi creati dai media. Per esempio, quando le televisioni diminuiscono la copertura di crimini violenti, la polizia sembra ridurre gli sforzi nella ricerca dei colpevoli, reindirizzando le risorse su altre attività. Gli incentivi e i pregiudizi dei poliziotti si aggiungono a un sistema in cui molti poteri sono accentrati nel corpo di polizia, favorendone gli abusi.

L’idea di “defund the police”, che prevede di scorporare la polizia e affidarne alcune funzioni ad altri corpi, potrebbe essere una strada percorribile. Come sostiene Luigi Zingales l’esperienza italiana è un esempio di come si possano ridurre gli abusi di potere facendo competere corpi diversi con funzioni in parte sovrapposte.

Se è vero che la polizia discrimina, i dati sulle drammatiche conseguenze di una riduzione degli sforzi dei poliziotti dimostrano che la polizia in molti quartieri è una difesa importante per afroamericani e altre minoranze. Inoltre, le discriminazioni da parte della polizia e i suoi problemi cronici sono la punta dell’iceberg di un problema più profondo.

L’America di oggi, pur non avendo risolto i problemi di discriminazione, è un luogo più inclusivo di quanto non fosse 50 anni fa. Le grandi aziende, le università, le associazioni hanno adottato codici di condotta che condannano la discriminazione razziale, hanno una maggiore rappresentazione di afroamericani nei loro vertici e spesso hanno predisposto interi organi per individuare e punire ogni comportamento discriminatorio.

La stampa è attenta alle battaglie riguardanti il razzismo ai danni della comunità afroamericana, come dimostra il progetto 1619 del New York Times che ha appena vinto un premio Pulitzer.

Eppure, la differenza di salario tra bianchi e afroamericani è cresciuta negli ultimi quarant’anni. Il gap di istruzione tra bianchi e afroamericani si è ridotto molto poco, soprattutto in alcuni Stati. In altri è addirittura aumentato. Con tutto questo la polizia c’entra poco.

I motivi sono da ricercare in un problema strutturale, che ha origini nella secolare discriminazione nei confronti degli afroamericani.

A parità di reddito dei genitori, le prospettive di guadagno per un afroamericano sono inferiori a quelle di un bianco. Parte di questa differenza di prospettive viene dalla segregazione degli afroamericani in quartieri poveri, con pochi servizi e poco connessi con il resto della città. Diversi studi dimostrano l’importanza del quartiere in cui si cresce per istruzione, salario e probabilità di commettere crimini.

Favorire la mobilità tra quartieri con programmi di “desegregazione” può aiutare alcuni degli abitanti di queste zone depresse a migliorare l’istruzione dei propri figli e aumentarne il reddito.

La segregazione non si limita ai quartieri, ma si estende alle scuole. Coloro che scelgono il sistema pubblico tra elementari e scuola superiore hanno priorità di accesso alle scuole del proprio distretto ed è raro riuscire a frequentare scuole in altri quartieri.

Anche in quartieri non segregati in cui la composizione delle classi dovrebbe essere bilanciata, la pratica del tracking permette di separare all’interno delle scuole gli studenti con voti più alti – tipicamente bianchi con famiglie ricche – da studenti con risultati peggiori, appartenenti solitamente a minoranze. Di conseguenza, le classi vengono nei fatti separate sulla base del reddito familiare, impedendo uguali opportunità.

Dare la possibilità di frequentare le stesse scuole e classi può eliminare il gap nei risultati scolastici. E’ il caso del programma Harlem Children’s Zone condotto nelle scuole del quartiere di Harlem a New York.

I bambini afroamericani che hanno avuto la possibilità di frequentare la scuola media nelle Charter School incluse nel programma hanno raggiunto gli stessi risultati dei coetanei bianchi. Purtroppo non è sempre così.

Dati su un campione di scuole a fine anni 90 mostrano che il gap nei risultati scolastici tra bambini bianchi e afroamericani si allarga progressivamente dentro le stesse classi, nonostante sia quasi nullo nel primo anno di scuola.

Le ragioni stanno nelle differenze del contesto sociale in cui i bambini crescono, a testimonianza del fatto che si debba agire su più fronti. Politiche d’integrazione sulle scuole però sono generalmente efficaci, almeno nel ridurre il divario nei risultati scolastici.

Se le proteste di queste settimane si limiteranno a chiedere una riforma della polizia – per quanto necessaria – e non interventi strutturali su scuole e programmi di desegregazione, gli Stati Uniti rischiano di sprecare il più grande movimento di piazza degli ultimi trent’anni.