Le criticità di un salario minimo a 9 euro nel contesto italiano

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June 17, 2022

Il salario minimo è tornato protagonista. Il segretario Dem Letta ha detto che “l'assenza del salario minimo decreta la morte dei lavoratori”, auspicando che diventi “legge prima della fine della legislatura”.Il M5S è da sempre il principale sponsor politico dell’intervento, a cui ha aperto recentemente anche il Ministro del Lavoro Orlando. La battaglia per una paga minima oraria nazionale è sostenuta da tre argomenti: aumentare ex lege i salari più bassi; adeguarsi alla recente direttiva europea – in realtà più blanda di come viene spesso raccontata; combattere i contratti “pirata”, cioè quei contratti collettivi nazionali del lavoro (CCNL) firmati da unioni sindacali poco rappresentative, che permettono alle aziende che li adottano di derogare alle garanzie dei CCNL più usati.

In Italia, infatti, il sistema di contrattazione collettiva stabilisce la retribuzione minima per quasi tutti i dipendenti di aziende private: come una serie di salari minimi per settore. Questo sistema flessibile è particolarmente utile per il tessuto produttivo italiano, composto da aziende piccole, frammentate, spesso poco produttive, e con grandi differenze geografiche, perché si adatta bene alle tante diverse esigenze.

Un salario minimo nazionale, oltre a far perdere questa flessibilità, rischia di avere un effetto negativo sull’occupazione. Ma quanto grande è questo rischio, se c’è? Gli economisti se ne occupano da tempo, e sono riusciti a capirci qualcosa. La risposta breve è che l’impatto occupazionale dipende da quanto “potere contrattuale” hanno le imprese nel fissare i salari. Se sono molto forti e affrontano poca concorrenza, possono permettersi di pagare i lavoratori meno della loro produttività marginale, cioè, meno di quanto – in senso economico –si meriterebbero. Se questo è il caso, introdurre il salario minimo significa erodere un po’ questo “vantaggio” delle imprese, senza grosse ricadute occupazionali. Anzi: il numero di lavoratori impiegati potrebbe addirittura aumentare. Al contrario, le imprese piccole e relativamente deboli non hanno grande capacità di influire sul costo del lavoro che pagano. In questo caso, costringerle per legge a pagare stipendi più alti – spesso, molto più alti – rischia di indurle a ridurre la quantità di persone occupate, o a fallire.

L’intuizione, alla fine, è semplice: l’aumento del costo del lavoro imposto da qualche parte deve ricadere. Se le imprese sono monopsonistiche (hanno forte capacità di fare i salari) obbligarle a pagare stipendi più alti riduce questa loro capacità, senza aumentare troppo la disoccupazione. Se invece questo non è il caso, il costo viene in qualche modo scaricato sui lavoratori, che vengono licenziati o non assunti. Gli studi a testimonianza dell’eterogeneità di questo processo sono ormai moltissimi, in diversi paesi del mondo, dagli Stati Uniti al Giappone.

L’Italia, con le sue imprese piccole e ultra-frammentate, rischierebbe quindi di ricevere un colpo fortissimo da un salario minimo nazionale. Sappiamo poi che anche le imprese più grandi, forti e monopsonistiche aggiustano il margine dell’occupazione quando l’intervento è grande, cioè quando viene introdotto un minimo che è molto distante dal salario mediano. A farne le spese, in questi casi, sono come sempre i lavoratori meno formati e meno pagati (low-skilled). E qui arriva un altro problema: si parla di fissare il minimo a 9€ l’ora – un numero enorme, l’80% del salario mediano in Italia, e il 90% di quello delle aziende con meno di dieci dipendenti, la stragrande maggioranza.

È un quadro poco roseo: imprese piccole e deboli, salario minimo teorico altissimo, perdita della flessibilità sui minimi della contrattazione collettiva. Tutti gli elementi che testimoniano contro l’introduzione di questa misura, in Italia sono presenti.

Non solo: recenti ricerche di Francesco Devicienti e Bernardo Fanfani dell’Università di Torino mostrano che quando, negli ultimi anni, i minimi tabellari dei CCNL sono stati rinegoziati al rialzo, le imprese – in particolare quelle meno produttive – hanno risposto riducendo occupazione e produttività. Aumentare i minimi ha quindi sì aumentato il salario dei lavoratori (sostanzialmente di tutti, non solo di quelli che guadagnano poco), ma lo ha fatto a discapito di due dimensioni molto importanti.È un altro pezzo del puzzle che racconta un intervento pieno di rischi.

Resta poi il nodo dei “contratti pirata”, di cui dicevamo prima. Anche qui, piedi di piombo: le aziende che usano contratti pirata sono già poco produttive e in relativa difficoltà rispetto alle altre, ed è proprio questo che cercano modi di pagare i loro lavoratori di meno. È lecito aspettarsi, quindi, che l’impatto di un salario minimo nazionale sulla loro struttura dei costi sia particolarmente violento, portando molte di queste a chiudere o a ricorrere al lavoro nero. Ovviamente, i contratti pirata restano un problema da risolvere, ma non serve forzare la mano con un salario minimo nazionale: si può pensare, ad esempio, di imporre una sorta di “minimo tabellare” fuori dai CCNL più rappresentativi. È evidente però che parlare di 9€ l’ora per affrontare queste situazioni è improponibile, perché la ricaduta occupazionale che è lecito aspettarsi sarebbe pesantissima.

Insomma, l’Italia continua ad essere un paese particolare sotto molti punti di vista, compresa la struttura del suo tessuto imprenditoriale. Anche se immaginare una costellazione di imprenditori-predatori che tengono i salari volutamente bassi per aumentare il proprio guadagno è certamente suggestivo, parliamo di una rappresentazione lontana dalla realtà, perché le nostre imprese sono –in larghissima parte – deboli e poco produttive. Far finta di ignorare quale sarebbe l’impatto su di loro (e quindi sui loro dipendenti) di un salario minimo nazionale significa non voler fare gli interessi né dei lavoratori, né delle aziende. Ancora una volta, la politica è chiamata a scegliere tra la retorica e l’analisi costruttiva. Speriamo, come sempre, che faccia la scelta migliore.