Nuovo benefit? I vincenti e i perdenti dello smart-working

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May 7, 2020

Dopo due mesi di quarantena è ormai chiaro: lo smart-working potrebbe essere un’opportunità per le aziende perché permette di ridurre i costi fissi, di ridimensionare gli spazi di lavoro e di risparmiare sui costi di trasporto.

I mercati sembrano credere a questa versione, come testimonia il prezzo delle azioni di Zoom. Il 18 marzo 2020 potrebbe diventare il simbolo di un passaggio cruciale per il futuro del lavoro: la capitalizzazione in borsa di Zoom ha temporaneamente superato quella di Uber, il colosso della videoconferenza e della conversazione virtuale supera quello del trasporto fisico.

Gran parte del mondo del lavoro si è spostato su supporti virtuali, e anche il mondo dell’istruzione ha riadattato la didattica alle nuove esigenze. Se queste soluzioni dovessero rivelarsi egualmente produttive a fronte di costi inferiori, la rivoluzione sarebbe irreversibile.

D’altra parte però, se il telelavoro fosse davvero un modo per abbattere le spese di produzione, c’è da chiedersi perché non si sia diffuso massicciamente fino ad ora. La domanda è ancora senza una risposta chiara. Una possibilità è che poche aziende fossero disposte a prendersi il rischio di esplorare l’alternativa. In tal caso l’epidemia svolgerebbe il cosiddetto ruolo di “nudge”, ovvero sarebbe una piccola spinta verso un cambio di comportamento.

L’altra possibilità è invece che il telelavoro non sia un adeguato sostituto del regolare lavoro in ufficio. Se così fosse, le aziende tornerebbero alla regolare attività al termine dell’emergenza, ma una serie di studi suggerisce che il telelavoro aumenti la produttività in diversi contesti.

Supponiamo di voler credere ai mercati e a questi studi, e di considerare il Covid come l’inizio della rivoluzione del telelavoro. Se le aziende risparmiano, questo si traduce in maggiori margini di profitto, che a loro volta potrebbero riflettersi in salari più alti. Oppure no.

Dobbiamo in ogni caso aspettarci che la rivoluzione, se sarà tale, coinvolgerà anche i contratti di lavoro. La possibilità di telelavoro è definita in gergo economico una “amenity”, la cui migliore traduzione italiana è probabilmente “benefit”.

Si tratta di un aspetto non monetario che caratterizza un contratto. Altri esempi di amenity sono i confort degli spazi lavorativi o la facilità con cui può essere raggiunto il luogo di lavoro. A parità di salario i lavoratori tendono a preferire contratti che prevedono una serie di benefit che, seppur non monetari, migliorano le condizioni di lavoro e di vita.

Lo smart-working – se non imposto dall’azienda – è chiaramente una amenity: garantisce maggiore flessibilità nello svolgimento delle proprie mansioni, maggiore indipendenza nell’organizzazione del tempo e soprattutto permette di risparmiare il tempo di trasporto da e verso il luogo di lavoro.

Se pensiamo al contratto di lavoro come ad un “pacchetto” che include salario e benefit, nell’era post-Covid lo smart-working si aggiunge prepotentemente alla lista di possibili benefit. Per questo motivo sempre più contratti ne regoleranno l’utilizzo, offrendo ai lavoratori la possibilità di svolgere le loro mansioni da casa per parte della settimana.

Maggiori benefit sul contratto possono però essere accompagnati da riduzioni nel salario: in cambio di flessibilità l’azienda risparmia sul costo del lavoro. Può accadere dunque che il ruolo di amenity dello smart-working freni le dinamiche di crescita dei salari. Il nuovo equilibrio dipenderà dal potere contrattuale delle aziende, ma è verosimile aspettarsi che il telelavoro, garantendo maggiore flessibilità, crei un vantaggio per tanti lavoratori.

La rivoluzione tecnologica, però, non è mai neutra, e a fronte di tanti beneficiari qualcuno rischia di pagare un conto salato. Per capire chi, vanno per prima cosa individuati i lavoratori resi meno indispensabili dalla nuova tecnologia.

Un esempio sono i lavoratori nei settori dell’istruzione di alto livello e della formazione: una migrazione della didattica su piattaforme virtuali favorisce l’accesso a lezioni prima inaccessibili a molti, riducendo la domanda per la didattica di qualità inferiore tenuta per ora in vita da una maggiore accessibilità.

Si tratta comunque di processi che richiederebbero tempo e soprattutto – a differenza del caso delle tecnologie di automatizzazione – non ci sono molti ovvi esempi di occupazioni rese non indispensabili dal telelavoro.

Un altro aspetto va però preso in considerazione. Non è necessario che lo smart-working distrugga opportunità di occupazione perché generi un costo per molti. Può accadere che il telelavoro crei un beneficio diseguale, alzando i salari dei lavoratori più abbienti, lasciando quelli a salario basso con un minore potere di acquisto.

Questo succede se la nuova tecnologia “esalta” in maniera diseguale le competenze dei due gruppi di lavoratori. Come mostrano i dati, le possibilità di telelavoro sono decisamente maggiori per i salari più elevati: in Italia le mansioni svolte da individui ad alto reddito si prestano fino a tre volte di più al telelavoro rispetto a quelle svolte da individui a basso reddito.

Questo fenomeno, già studiato per le innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni, è indicato da molti come una delle cause dell’aumento delle disuguaglianze insieme alla scarsa offerta di lavoratori a elevata competenza.

Il processo è noto come skill-biased technological change, ovvero un cambiamento tecnologico con effetti asimmetrici tra lavoratori con competenze diverse. Il telelavoro potrebbe contribuire a questo fenomeno in atto ormai da diverso tempo.

D’altro canto, però, il ruolo di “amenity” dello smart-working può contenere la dinamica di aumento della diseguaglianza, riducendo l’aumento di salario per i lavoratori ad alto reddito a fronte di maggiori “benefit” non monetari. Difficile predire ora quale di queste dinamiche prevarrà nel lungo periodo.